Autocoscienza · Femminismi

Di molestie, #MeToo e altri pensieri aggrovigliati

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Credits: http://www.cbc.ca

Sono state due settimane intense e sì, lo sto dicendo un po’ per giustificarmi. Però devo confessare che non è stata tutta colpa del lavoro, che pure a tratti mi ha tolto anche il tempo di farmi uno shampoo. Ormai ho imparato a conoscermi, e so bene che la paralisi nella scrittura sopraggiunge di solito quando nel mondo accade qualcosa che mi sconvolge; allora la testa mi si ingombra di pensieri, che nello stesso istante in cui sgomitano per venire fuori si aggrovigliano in matasse confuse, e allora lo so che a sbrogliarle sarebbe una faticaccia. Però, talvolta, sforzarsi di dare a questi pensieri una forma compiuta e tradurli in scrittura diventa un dovere morale, oltre che un modo efficace per far pace con me stessa e con il mondo. (Eccovela qua la matassa, chi ci ha capito qualcosa fino a questo punto alzi la mano). Però no, davvero. A raccontarvi questa cosa ci voglio provare, specialmente adesso che non sta più tra i temi caldi di Google Trends.

Avrete sicuramente sentito parlare del caso Weinstein. E di Asia Argento, e di tutta la valanga di fango che sistematicamente le donne – specialmente italiane – sono state bravissime a scaricare addosso a lei e alle altre che hanno denunciato il produttore per molestie sessuali. Sono storie dolorose, spesso venute fuori a distanza di decenni. Storie che era difficile raccontare perché la molestia, quando accade, ha talvolta i contorni sfumati. E spesso chi la subisce passa tantissimo tempo a interrogarsi su quello che è successo, ci mette secoli talvolta a dargli un nome, quel nome specifico e decisamente odioso. Il tarlo poi, la vocina insistente dentro la testa che sussurra: “Magari è anche colpa tua, hai flirtato, hai provocato, perché eri vestita in quel modo?”, che cresce a tal punto da diventare assordante e silenziare tutti gli altri pensieri, da impiantarsi stabilmente nella coscienza e dominarla. Ti senti colpevole, e dopo un po’ ti autoconvinci di esserlo per davvero. E pace se quella volta in cui è successo, in cui sei stata “oggetto (ecco, riflettiamo su questa parola) di attenzioni inappropriate” da parte di qualcuno ti sei sentita morire dentro, se ti hanno fatto schifo le sue mani addosso e il suo fiato sul collo. Non sei neanche scappata, che cazzo vuoi. A volte manca la forza, la voglia di cercare di spiegare quanto ci si sentisse piccole in quel momento lì, quanto quell’attenzione – nel momento esatto in cui ci appariva repellente – potesse al tempo stesso venire interpretata come lusinghiera: perché sì, sembra difficile da credere, ma talvolta la nostra psiche fa scherzi crudeli, specialmente in quei periodi in cui magari non ci si ama abbastanza, e allora si pensa di non valere molto neanche per gli altri. Se io non mi amo, perché dovrebbe farlo qualcun altro/a? In casi del genere può anche capitare che tra vittima e molestatore si crei un rapporto ambiguo, di dipendenza psicologica. Vi piaccia o no, casi del genere succedono. E se qualcuna delle donne che ci sono passate decidesse un giorno – quando si sente finalmente forte, quando ha imparato ad amarsi e accettarsi, quando è riuscita finalmente ad elaborare la vicenda – di raccontare la sua storia, sarebbe bene starla a sentire. Se solo non fossero tutt* troppo impegnat* a darle della troia.

Evito quasi sempre di leggere i commenti sotto ai post di alcune delle testate giornalistiche che seguo su Facebook. Ed evito ancora di più di mettermi lì a commentare a mia volta. In questi giorni però non ce l’ho fatta, e in un paio di casi ho ingaggiato delle conversazioni sconfortanti, bastevoli per rafforzarmi nell’idea che in Italia sia sempre più necessaria una massiccia operazione educativa, che quantomeno indebolisca l’impalcatura ideologica di stampo vetero-patriarcale che sembra informare i discorsi di molte donne. Discorsi che oscillano tra il vieto benaltrismo (“le VERE molestie sono BEN ALTRE!”: seguono esempi random di violenze da manuale, tanto più degne di nota quanto più sono efferate, ché a noi i lividi e lo spargimento di sangue ci piacciono assai) e l’aperta difesa del molestatore, che poverino viene “buttato sotto un treno” dalle zoccole che prima ci sono state e adesso, dopo anni, urlano ai quattro venti che è un maiale.

Per deformazione professionale, sono portata a decostruire pezzo a pezzo affermazioni di questo tipo, per cercare di tirarne fuori la matrice ideologica. Ecco, mi sembra che in questo caso si leghino convinzioni di tipo naturalistico (“i maschi sono naturalmente delle bestie, devono essere le donne a tenere sempre e comunque gli occhi aperti”) – che di vero non hanno niente, se non una legittimazione di tipo culturale che implica a sua volta l’esistenza di soggetti dominatori e oggetti dominati – a tendenze semplificatrici che portano a dividere il mondo in buoni e cattivi, sante e puttane, al solo scopo di renderlo più ordinato e facilmente leggibile. E no, se rientri nella categoria “puttana” non è ammesso che ti possa capitare qualcosa di brutto, tipo essere molestata o violentata. Perché se succede te la sei cercata, fine del discorso. Date simili premesse, anche solo un tentativo di far riflettere sull’autodeterminazione dei corpi è da considerarsi fallito in partenza. Ho letto più di un appello di donne che si rivolgevano alle proprie sorelle (perché sì, questo dovremmo essere, dannazione!) tirando in ballo, a sproposito, la parola ‘dignità’. “Se avessi avuto un briciolo di dignità saresti scappata”: come se una vittima una dignità non ce l’avesse. Come se il solo fatto di non aver avuto la prontezza o la forza per reagire a una molestia squalificasse immediatamente una donna al rango più basso della scala socio-morale (moralista?): quella delle poco di buono, condannate irrimediabilmente al silenzio.

Già un mese fa avevo scritto di quanto fosse desolante dover constatare che l’empatia è ormai un sentimento sconosciuto, forse anche in via di estinzione, specialmente tra gli assidui frequentatori del web. Si tende sempre più a giudicare, a ingabbiare in personalissimi schemini moralistici tutto quello che capita a tiro, senza preoccuparsi minimamente di stare ferendo i sentimenti altrui. Senza chiedersi neanche per un secondo cosa potrebbe avere vissuto la persona che sta dall’altra parte dello schermo. Per fortuna in questa brutta storia si sono visti anche degli spiragli di luce. Donne che poco per volta, attraverso l’hashtag #metoo hanno raccontato episodi di “ordinarie” molestie avvenute specialmente sul posto di lavoro, tendendo mani e creando catene di solidarietà che oggi sono più che mai necessarie. Ma non è comunque a cuor leggero che si usa quell’hashtag, dire #metoo fa abbastanza male, specialmente se si è coscienti che i giudizi di paladini e paladine della Sacra Virtù Femminile sono sempre lì in agguato.

A volte vorrei che il mondo fosse un posto semplice in cui vivere, ma sono consapevole che si tratta di un’utopia. Non ci resta che combattere nel nostro piccolo una battaglia quotidiana contro giudizi e pregiudizi, contro convinzioni considerate impossibili da mettere in dubbio e che invece potrebbero sbriciolarsi soltanto a sfiorarle con due dita. Serve però una buona dose di coraggio per far vacillare certe impalcature, e ne serve ancora di più per sopravvivere alle accuse di chi entro i confini rassicuranti di quelle convinzioni ci viveva benissimo, e strepita e lancia fango contro chi è colpevole soltanto di aver esperito la parte meno piacevole del mondo, ma ha deciso comunque di non restare in silenzio.

#MeToo

3 pensieri riguardo “Di molestie, #MeToo e altri pensieri aggrovigliati

  1. L’empatia è una cosa che non esiste più! Faccio davvero fatica a leggere certi commenti su social quando ci sono argomenti di questo tipo. Sono disgustata da quanto una donna non riesca a empatizzare con un altra a cui è stata fatta una molestia che fosse fisica o psicologica. E veramente tremendo…

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