Autocoscienza · salute mentale

The devil on my back

Di certo voi non lo sapete, ma uno dei post più letti di questo blog si intitola “10 cose per cui vale la pena vivere”: l’ho scritto anni fa e non ha niente di metafisico, è un gioco che mi è venuto in mente di fare dopo aver visto al cinema la versione restaurata di Manhattan, il film in cui Woody Allen a un certo punto si sdraia sul divano simulando una seduta dall’analista e registra la sua voce mentre elenca tutte le cose per cui, a suo modesto parere, vale la pena vivere. Stando a quanto mi racconta il report mensile di Google Search, la maggior parte delle persone trova il mio articolo proprio dopo aver chiesto al motore di ricerca quali sono, a suo modesto parere, le cose per cui vale la pena vivere. Ogni volta che il report arriva io so già prima di leggerlo che mi verrà il groppo in gola, perché mi viene automatico pensare che a muovere le dita delle tante persone che quotidianamente chiedono a Google di mostrargli le ragioni per cui valga davvero la pena svegliarsi mattina dopo mattina e timbrare il cartellino della nostra presenza su questo pianeta ci siano motivazioni complesse, forse in alcuni casi dolorose, che meriterebbero una risposta migliore di quella che il mio vecchio post ha da offrirgli. E siccome ho sperimentato in prima persona il senso di vuoto e la paura che in determinati momenti ci spingono a cercare su internet, nelle storie degli altri, il conforto che non riusciamo a trovare nel mondo a noi immediatamente più vicino, dove ci sembra di essere le uniche persone a stare lottando o ad aver mai lottato contro determinati mostri, ho deciso di scrivere una versione aggiornata di quel post ormai datato, nella speranza che capiti nelle mani di chi, in questo momento, ha tantissimo bisogno di riconoscersi nello spaesamento di qualcun altro.

Fun fact: è già la seconda volta che provo a scrivere questo post. Ne esiste una versione in cui la faccio troppo metaforica e parlo di buio nell’anima, demoni che ti si aggrappano addosso togliendoti la gioia di vivere e altre immagini poeticamente inquietanti che tutto fanno fuorché chiamare le cose con il loro nome, che è poi l’unica azione realmente necessaria se vogliamo davvero normalizzare il discorso sulla salute mentale e aiutare le persone a parlarne senza vergognarsi. È doloroso, ma ci provo: negli ultimi due anni ho sofferto di ansia, depressione e sindrome ossessivo-compulsiva. Avevo sempre considerato il mio essere, fin da bambina, una persona estremamente apprensiva, perfezionista, bisognosa di tenere tutto sotto controllo come tratti caratteriali immutabili, che se da un lato mi impedivano di essere pienamente serena e presente a me stessa dall’altro mi davano un’identità facilmente riconoscibile da chi mi stava intorno. Marta la precisina, Marta l’ipocondriaca, Marta che si preoccupa in maniera eccessiva se qualcuno a cui vuole bene ritarda dieci minuti o non risponde al telefono, Marta brava a scuola, Marta che prova a risolvere i problemi altrui anche se nessuno glielo ha chiesto, Marta che aggredisce per prevenire gli attacchi, Marta che si intristisce e poi si arrabbia perché pensa che a nessuno importi di sapere come sta: questo era tutto quello che credevo di essere e che mi dava sicurezza, sebbene non mi rendesse felice.

Poi ad un certo punto, complice la pandemia, ho avuto paura di perdere tutto, che è un modo edulcorato per dire che ho avuto la paura concreta di morire da un momento all’altro: mi sono resa conto in maniera inaspettata e, proprio per questo motivo, dolorosa che c’erano aspetti della vita, mia e altrui, sui quali non potevo avere alcun controllo. Ma invece di portarmi ad abbracciare l’epicureismo del carpe diem e a vivere con entusiasmo ogni giorno che mi veniva donato senza più rimandare la felicità a domani, questa nuova, terribile consapevolezza della caducità di tutte le cose mi ha procurato una sorta di paralisi. Lentamente, ma in modo inesorabile, mi sono trasformata in padron ‘Ntoni dei Malavoglia, il capofamiglia che stanco delle sue sciagure verso la fine del romanzo trascorre tutti i giorni seduto davanti alla porta di casa senza fare nulla, aspettando che la morte passi a prenderlo. È così che ho smesso di immaginare di poter scrivere un libro, fare un bambino, cucinare qualcosa di buono per cena, fermamente convinta che non avesse alcun senso progettare o avere fiducia nel domani se di punto in bianco avrei potuto perdere tutto. L’unica soluzione praticabile per ridurre al minimo la sofferenza di un’eventuale perdita mi è sembrata quella di smettere, semplicemente, di fare progetti.

Ho passato mesi completamente disconnessa, coltivando una paura cieca per il futuro che poco per volta mi ha resa incapace di vedere le piccole cose belle che riempivano le mie giornate. Vivevo rintanata dentro di me, compiendo azioni da sonnambula perché la mia mente stava da tutt’altra parte, impegnata a cogliere i risvolti più tristi o ansiogeni di ogni singolo evento che mi capitava. Faccio un esempio: ci sono dei cibi, come la pizza, che a volte (non sempre) mi danno fastidio allo stomaco. Niente di grave, ma nel periodo in cui ansia e depressione avevano assunto il pieno controllo dei miei pensieri e della mia vita avevo iniziato a preoccuparmi talmente tanto per questa cosa che ogni qualvolta andavo a mangiare la pizza – e magari ero anche contenta di essere fuori con amici – il pensiero che quello che stavo mangiando avrebbe potuto farmi stare male diventava talmente ossessivo da portarmi in un posto lontano da quella tavola: mi estraniavo dalla conversazione, iniziavo a sentirmi in colpa per quello che stavo mangiando, faticavo a finirlo o mi imponevo di non mangiarlo, mi irrigidivo per paura che arrivassero i crampi, quasi li aspettavo perché sapevo che sarebbero arrivati e tutti si sarebbero preoccupati per me e quella sarebbe diventata la serata in cui Marta era stata male, avrei rovinato un momento piacevole che io e chi stava con me avevamo atteso per tanto tempo e certo mi sarei dovuta preoccupare del fatto che non era normale avere i crampi allo stomaco dopo la pizza e forse avrei dovuto fare degli accertamenti medici che sicuramente avrebbero rivelato qualcosa di grave. Intorno a me, intanto, la serata proseguiva tranquilla, spesso nessuno si accorgeva che la mia mente se ne era andata altrove perché la vergogna mi rendeva molto brava a dissimulare: non avevo rovinato la serata a nessuno tranne che a me stessa.

Immaginate che questa diventi la prassi, che l’anticipazione di qualcosa di brutto che potrebbe accadere vi impedisca di godervi il presente e tutte le piccole cose per cui vale la pena vivere di cui solo e soltanto il presente è pieno. Avvertivo, spesso, la sensazione soffocante di essere richiusa in una stanza dalla quale, paradossalmente, avevo il terrore di uscire perché temevo che fuori potessero esserci ansie peggiori di quelle che mi tormentavano rimanendo all’interno. La mia vita si era trasformata in un deserto di angoscia, una lotta costante contro pericoli ipotetici sì, ma che sarebbero potuti diventare reali da un momento all’altro. Sono andata avanti così, prosciugandomi dentro e fuori finché non ho deciso di chiedere aiuto.

In Soul – che credo sia uno dei film di animazione più belli che abbia visto negli ultimi anni – le persone che vivono nella condizione che ho appena descritto vengono rappresentate come anime che si sono perse e vagano sofferenti in un limbo sospeso tra la vita e la morte, intrappolate dentro gigantesche e pesantissime armature nere, mentre i loro corpi sulla Terra continuano a svolgere meccanicamente le mansioni di tutti i giorni senza essere realmente presenti, del tutto privi di consapevolezza. La scena in cui l’anima di un operatore di borsa newyorkese viene finalmente liberata dall’armatura e riconnessa al suo corpo ha avuto per me il valore di un’epifania: il ragazzo che fino a un attimo prima pigiava tasti su un computer con lo sguardo perso nel vuoto e di colpo si rende conto di cosa sta facendo e di quanto poco gli piaccia il luogo in cui si trova, urla “sono vivo!” e scappa di corsa dopo aver distrutto tutto quello che ingombrava la sua scrivania mi sembra la rappresentazione più accurata della gioia che si prova riemergendo da una notte senza luci nella quale credevamo di rimanere intrappolati per sempre.

Ed esattamente come nel cartone animato, a liberarmi dalla mia armatura nera e ad aiutarmi a riconnettermi con la vita sono state una serie di creature gioiose che mi hanno rieducata alla leggerezza: una psicoterapeuta con la passione per le piante, un’istruttrice di yoga americana, un manipolo di preadolescenti che guardano al futuro con una certa spacconeria ma sono anche capaci di intenerirsi o, molto più spesso, di spararle talmente grosse da farmi ridere fino alle lacrime. Ogni tanto il buio ritorna: tornano l’ansia, la paura, i pensieri che si prendono ogni centimetro di spazio e mi rendono difficile respirare. Ma la differenza rispetto a prima è che adesso io so che passeranno. Io so come farli passare o, perlomeno, so come impedirgli di piantare le tende in tutte le mie giornate e di renderle di nuovo grigie e asfissianti, terribilmente difficili da portare a termine. Sto imparando a radicarmi nel presente, a notarne i dettagli, a respirare di pancia. Nei momenti più difficili prendo carta e penna, mi concentro e scrivo tre cose belle che mi sono successe durante la giornata. Coltivo gratitudine e provo a parlarmi con gentilezza. Ogni tanto piango, quando sento di averne bisogno per stare meglio. Funziona.

Due mesi fa mi sono tatuata, per la prima volta nella mia vita. Immaginavo da anni le parole che avrei voluto incidermi sulla pelle, in un posto che fosse abbastanza visibile a me prima ancora che a occhi estranei. Una frase, ascoltata in loop nei momenti in cui sentivo di averne più bisogno, una specie di mantra a cui ho lungamente atteso di credere fino in fondo prima di poter tollerare di vedermelo scritto addosso. It’s always darkest before di dawn: fa sempre più buio prima dell’alba. Lo canta Florence Welch in Shake it out, che è poi l’unica sua canzone che conosco e della quale amo, oltre che ogni parola, la forza e il dolore e la gioia della rinascita con la quale ciascuna di quelle parole viene cantata. La sua voce è quella di chi ha vissuto a lungo con un demone aggrappato alla schiena e si è finalmente resa conto che in quel modo era impossibile danzare e allora decide di scuoterlo via e di tornare a risplendere. È il canto di chi ha attraversato la notte più buia, ma alla fine è riuscita a fare riabituare i suoi occhi alla luce. È questo il motivo per cui amo ogni parola di questa canzone: perché inconsapevolmente racconta anche la mia storia.

L’immagine di copertina è stata scattata da Viviana Spanò (IG: @vivianaspan), che ha realizzato il mio tatuaggio

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